La Cima nella tradizione Lericina
Le memorie gastronomiche “imprestate” di Gabriella
Vivo a Lerici dai primi anni Sessanta, ma mi sento lericina d’adozione e vivo di “memorie imprestate”. Mi piace molto studiare i cibi del territorio di Lerici attraverso i loro ingredienti. E occasionalmente trovare nelle ricette “raccontate”, memorie, passaggi, stili di vita. Ovviamente quindi a Lerici, vista la sua marineria che ha attraversato le acque del mondo (il borgo era collegato con Genova) la cucina gode un forte influsso della tradizione di quella che era considerata la “capitale”. La città per eccellenza.
Andare a Genova era vera e propria esperienza. Raccontava Bertolani che sua madre si preparava tre giorni prima al grande evento. E dormiva poco in attesa della partenza. Mi diceva la Caterina del castello (la zia del regista Faccini) da cui sono andata spesso a farmi “imprestare” le memorie di cucina : “Oh, le carrozze con le signore con i cappellini e la veletta sugli occhi”. Aveva gli occhi lucidi nel ricordo. Per lei, cresciuta in una casa con orto e vigna sotto il castello, approdata a Genova per lavorare in una casa signorile, voleva dire trovare motivo per stupirsi a ogni angolo. Anche in cucina. E, quando parlava di cucina ricca genovese, ecco che la Caterina citava la cima. Che di fatto era davvero tanto diversa da quella di sua madre, più verde, sottolineava, ugualmente ricca di gusto ma meno scenografica. E raccontava di una vetrina di un famoso negozio genovese di gastronomia in cui veniva messa ogni giorno in bella vista. Si vedevano i diversi tipi di carne messi nel ripieno, le uova che formavano delle artistiche macchie rosate. I piselli. Ecco, i piselli. Alla Caterina piaceva molto il loro gioco nel ripieno. A Lerici i piselli nella cima sono presenti solo nelle ricette di casa di alcune famiglie della ricca borghesia marinara, in altre no.
Perchè e come possono essere diverse due preparazioni che portano lo stesso nome e fanno parte della stessa regione? Questione di economie e di storia, probabilmente. Come accadde per la varietà delle carni. Diceva il grande Rebora che Genova è sempre stata ricca di carni. Lerici meno: solo le famiglie un po’ più agiate se le potevano permettere (e parlo anche di coniglio, forse più presente). Ecco allora che la donna lericina ricorreva alle bietoline rosse dei campi per completare il ripieno (dove compariva quasi sempre poca carne, ripassata nell’olio e insaporita con la maggiorana). E, quando l’economia di casa lo permetteva, nel ripieno comparivano anche salsiccia o mortadella per insaporire di più e quindi arricchire il gusto. Ma non più di due uova. Già troppe per il magro bilancio di casa. E, in certi periodi dell’anno, introvabili. Le uova erano spesso destinate ai bambini. O per fare un pancotto in caso di malattia.
Ecco le due ricette a confronto.
La ricetta genovese della cima (che trascrivo) mi fu “raccontata” dal dott Angelo Lupi, in una conversazione (l’unica) concessa nella sua casa pochi mesi prima della sua morte. La ricetta della cima gliel’aveva data un suo grande amico e studioso di tradizioni gastronomiche liguri: l’accademico della cucina italiana Giuseppe Gavotti. Autore di un libro (introvabile) sulla vecchia cucina della Liguria.
Ricetta di cima ripiena alla moda di Genova
In una grande casseruola (oppure in un tegame dai bordi alti) si prepara cipolla tritata fine fine, si spezzetta con le dita qualche fogliolina di alloro per aromatizzare e si fa colorire a fuoco lento in olio fino al momento giusto di doratura (senza dimenticare che la trasparenza è un segnale importante). A parte si prepara il pieno. Vanno tagliati a quadrucci: carne di vitella, animelle, cervella. E si unisce al soffritto nella casseruola a prendere gusto. Quando tutto è rosolato si toglie dal fuoco e si aggiunge:
uova (albume rosso), formaggio parmigiano grattugiato, una manciatina di piselli, un pizzico di maggiorana e in stagione, qualche fettina di cuore di carciofo passato in acqua acidulata di limone. Le uova devono essere in quantità tale da ricoprire tutto il ripieno. Si rimette tutto il pieno al fuoco e si riscalda delicatamente. Intanto si era già preparata la borsa di carne a tasca, chiusa con il refe da tre lati. Quando il ripieno comincia a riscaldarsi (deve essere appena tiepido) lo si mette nella tasca, riempiendola meno della metà. Perchè? Perchè nella cottura il pieno si espande e se è troppo, la borsa si rompe. Cucire il quarto lato e forare con l’ago tutta la cima, qua e là. Un accorgimento questo, per permettere al ripieno di restare ben compatto. Ultimata la cucitura, si mette la cima al fuoco in una bella pentola d’acqua salata al punto giusto, a cui si aggiunge una cipolla, una costa di sedano e una carota. Si porta a bollore e si fa cuocere per un’ora e mezzo, circa. Poi si estrae la cima e la si mette a raffreddare fra due piatti con un peso sopra. Si taglia a fette di un cm di spessore e si serve con una salsina verde di prezzemolo, capperi, olio, aglio, pinoli.
A panséta de ‘a Carlotta de Teae
(pancetta, ovvero cima presente con minime varianti anche a Lerici )
Si acquista la carne per la tasca, facendo attenzione che sia bella bassa (si sa che la parte che ricopre la costata dalla parte esterna se è meno grassa fa sì che la cima cotta risulti molto uniforme). Si acquista anche il macinato da mettere a rosolare in un padellino in olio e sale per prendere gusto. Si acquista inoltre mezzo etto o poco più di mortadella che si taglia tutta a pezzetti con il coltellaccio o con la mezzaluna e si mette in una ciotola con il macinato, già passato nel padellino con poco olio e una puntina di sale. Usare le mani per amalgamare bene. Si tagliano sempre con il coltellaccio (o con la mezzaluna) anche le bietole cotte in pochissima acqua salata (appena appena, per restare molto verdi) e poi ben strizzate dentro un panno lindo. Nella ciotola ora abbiamo: macinato, mortadella, bietole, aggiungiamo una manciata di pan grattato, parmigiano e due uova intere, sbattute in un piatto fondo con sale e per chi piace, noce moscata grattugiata. Si lavora il ripieno sempre con le mani e si riempie la tasca (già cucita con refe in tre lati) poco meno della metà. Si mette una carota al centro e si chiude dopo aver bucato la superficie della cima con l’ago della lana. La cima viene quindi messa in una pentola con acqua salata, carota, sedano, una cipolla su cui si è appuntato un chiodo di garofano, un gambo di prezzemolo. Due ore di bollitura. Si raffredda la cima fra due piatti, con un peso sopra. Si taglia a fette.
E’ buona anche il giorno dopo, fritta.
Anche questa è una ricetta “raccontata”. Ne esistono tante altre. Direi che nel territorio di Lerici non è presente una omologazione. Come non esiste una collocazione per una festività a cui sia legata. La si faceva per Natale, ma anche in altre occasioni da festeggiare. Fra le mie memorie “imprestate” c’è un uso legato al secondo giorno di Natale: le fette venivano ripassate in padella e servite con la giardiniera fatta in casa. Oppure con i “gobi” (cardi) in besciamella. Che delizia.
Gabriella Molli
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