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Principessa MAFALDA. Varato nel 1908 a Riva Trigoso per il Loyd Italiano.
La nave partì da Genova l'11 ottobre 1927 al comando del capitano Simone Gulì con a bordo 1259 persone e, al momento del naufragio, si trovava a circa 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro. Erano le ore 17.15 quando in tutto il bastimento fu percepita una forte scossa. I passeggeri, preoccupati, uscirono sul ponte per cercare di capire cosa stesse succedendo, ma la nave procedeva in modo apparentemente regolare seppur rallentando visibilmente. Il primo pensiero degli uomini dell’equipaggio fu che la scossa potesse essere causata dalla perdita di un’elica, fatto certamente grave ma non necessariamente pericoloso. Ma il direttore di macchina Scarabicchi salì in plancia ed informò il capitano che aveva individuato il vero problema: si era sfilato l’asse dell’elica di sinistra, e ciò aveva causato uno squarcio nello scafo dal quale l’acqua entrava copiosamente allagando la sala macchine e certo avrebbe presto invaso anche i ponti poiché le porte stagne non funzionavano correttamente. Gulì fece suonare la sirena d’allarme mentre il primo ufficiale Maresco dava ordine ai marconisti Reschia e Boldracchi di lanciare un S.O.S..
Il segnale di soccorso fu raccolto da varie navi, tra le quali i piroscafi da carico Alhena (olandese) e l’Empire Star (inglese), che si trovavano nelle vicinanze e che accorsero immediatamente. Tuttavia questi si fermarono ad una certa distanza dal piroscafo italiano poiché da esso si innalzava una vistosa colonna di fumo bianco che faceva temere la possibilità di esplosione delle caldaie e quindi il rischio di un incendio. In realtà questo pericolo non sussisteva in quanto gli operatori della sala macchine avevano aperto le valvole del vapore prima che l’acqua raggiungesse le caldaie, ma l’unica dinamo presente a bordo si era bagnata e perciò non era più usufruibile. Reschia e Boldracchi, quindi, non poterono avere energia elettrica per trasmettere alle navi giunte in soccorso la comunicazione del fatto che la temuta esplosione delle caldaie non poteva verificarsi. Intanto sopraggiunse l’oscurità, che impedì qualsiasi comunicazione visiva. Ad ogni modo le navi soccorritrici misero poi in mare le lance riuscendo ad imbarcare molti naufraghi della nave italiana.
Resosi conto che la nave era ormai perduta, il capitano Gulì fece calare le lance di salvataggio, ma poiché ormai la nave era fortemente sbandata a sinistra, quelle di dritta cozzarono contro lo scafo danneggiandosi e divenendo inservibili. Nel frattempo a bordo si era creato il panico e molti passeggeri caddero (o si gettarono) in mare e annegarono. Sul lato di sinistra la situazione era migliore e Maresco fece il possibile per calare diverse scialuppe, che però rivelarono in pieno il loro cattivo stato: molte imbarcavano acqua dalle commessure e fu necessario per i passeggeri aggottare con i cappelli. Allora il capitano Gulì capì che non si poteva fare più nulla per salvare la nave e ordinò il "Si salvi chi può", mentre il caos a bordo aumentava sempre di più, anche a causa dell’oscurità assoluta (si era nel novilunio) e, mentre due passeggeri riuscirono a raggiungere a nuoto le altre navi, altri due si suicidarono sparandosi. Secondo alcune versioni anche il direttore di macchina Scarabicchi si sarebbe ucciso[2]. La stampa brasiliana riportò che alcuni naufraghi furono divorati dagli squali.
Comunque una parte delle scialuppe riuscì a raggiungere senza problemi le unità di soccorso e, insieme alle lance provenienti delle altre navi, a portare in salvo 945 persone. Intanto il Principessa Mafalda, verso le ore 22.20, essendo ormai completamente invaso dall’acqua a poppa, si alzò di prua e colò a picco in 1200 braccia d’acqua (circa 2200 metri). Numerosi i Lericini a Bordo (Un Ex Voto sera in San Rocco) |
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